«E dite, dite! Che cosa sareste voi senza dio, senza re, senza padroni, senza ceppi, senza lacrime? — Il finimondo!»
“Matricolati!”, Cronaca sovversiva, 26 maggio 1917
Se gli anarchici non fanno la storia, la faranno i loro nemici.
Questa osservazione formulata da un noto studioso italiano verso la metà del secolo scorso — per altro valida non solo in ambito cosiddetto storiografico — precede e accompagna tutto il dibattito sviluppatosi attorno alla cosiddetta storia dal basso.
In sé il fatto concreto, materiale, ha vita breve. Ciò che ne resta è l’interpretazione, la quale non può che essere di parte, corrispondente a precisi criteri ed interessi. Perché fare la storia non significa soltanto prendere parte a grandi imprese che cambiano il corso degli eventi; significa anche, e talvolta soprattutto, partecipare alla loro ricostruzione al fine di tramandarle.
Ciò che noi conosciamo come Storia non è mai — e non potrebbe essere diversamente — un insieme di fatti oggettivi, neutri, chiari e inequivocabili. È in primo luogo il frutto di una loro selezione, e interpretazione, e sistemazione, e infine presentazione. Questo processo viene elaborato in alto, da un’accademia al servizio del potere da cui viene foraggiata. La Storia diventa così ciò che è Stato: ciò che conferma la Sua ragione, che è funzionale ai Suoi interessi, che corrisponde alle Sue esigenze.
Da qui quel consiglio spassionato rivolto agli anarchici di redigere le proprie memorie, qualora non si desideri che la propria storia cada nelle mani di chi non può che scriverla a proprio uso e consumo. Ma quanti sono i rivoluzionari che hanno provveduto a lasciare tracce scritte del proprio passaggio su questa terra? Chi vuole agire qui ed ora non ha il tempo di fermarsi a soffiare via la polvere dei giorni, e poi non tutti possiedono la vanità necessaria a giustificare una propria autobiografia.
Tuttavia il rischio indicato da quel monito sussiste ed andrebbe sventato quando se ne presenti l’occasione. Lasciar parlare solo l’accademia, limitandosi di tanto in tanto a maledirla e a contraddirla, non fa che tramandarne il servilismo a tutte le prossime generazioni. L’alternativa non può essere tra l’ignoranza del passato (che obbliga a ricominciare sempre tutto daccapo, privandosi di esperienze e lezioni preziose), e il suo apprendimento dai soli libri di scuola. Se la memoria della rivolta — laddove non sia andata persa del tutto — è diventata ostaggio del sapere istituzionale, sequestrata in archivi che non tutti hanno la possibilità di consultare, in luoghi frequentati da storici che, pur mossi dalle migliori intenzioni, non possono che ridurre a materia specialistica ciò che è fonte di energia ribelle da irradiare… allora non ci resta che una cosa da fare. Aspettare quegli storici al varco per alleggerirli del loro prezioso bottino. Saccheggiare i tesori che si portano appresso in vista di una loro mera catalogazione e ripulirli dei luoghi comuni con cui li hanno travisati. Strappare al passato più incandescente l’uniforme istituzionale che gli è stata cucita addosso per dare vita infine ad una storia che non conosca né autorità né obbedienza.
Perché la Storia proveniente dall’alto si può contrastare solo con la storia che emerge dal basso.
Negli Stati Uniti, fra il 1914 ed il 1920, si è scatenata la più grande offensiva rivoluzionaria armata mai avvenuta nel XX secolo contro le istituzioni governative, giudiziarie, religiose, industriali e finanziarie del maggior paese capitalista del pianeta. Quelle azioni dirette non furono compiute dalle organizzazioni combattenti di qualche partito politico o di qualche movimento di massa più o meno radicale, bensì da un pugno di anarchici italiani là immigrati all’inizio del Novecento. Ed è proprio dalle loro fila che provenivano Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, diventati purtroppo celebri per essere stati giustiziati sulla sedia elettrica nel 1927, al termine di un caso giudiziario che ha fatto scalpore in tutto il mondo.
Questi anarchici italiani avevano una città come epicentro, Boston, ed un settimanale come pubblica voce. Quel giornale era Cronaca Sovversiva ed il suo principale animatore era Luigi Galleani.
In Italia, il nome di Galleani non era certo sconosciuto fra gli anarchici, meno noti i fatti che lo videro coinvolto. Nella sua biografia di oltre 100 pagine ad opera di Ugo Fedeli, pubblicata nel 1956 e ristampata nel 1984, del suo soggiorno in America e di Cronaca Sovversiva vengono ripercorse solo le polemiche teoriche: il furibondo litigio con Giacinto Menotti Serrati, la pacata discussione con Francesco Saverio Merlino sulla pretesa «fine dell’anarchismo», lo scontro generale in merito alla rivoluzione messicana, la critica all’interventismo durante la prima guerra mondiale. Come se Galleani si fosse limitato alla parola, brandendo esclusivamente l’arma della critica. All’interno di questa edificante ricostruzione (dovuta beninteso anche alla discrezione di Fedeli nei confronti di alcuni protagonisti di quei fatti lontani, ancora viventi all’epoca della stesura del suo libro) comparivano le figure di Salsedo, Sacco e Vanzetti nelle vesti di martiri innocenti. Oggi sappiamo che non andò esattamente così.
Per molti decenni la memoria di Galleani è rimasta impressa soltanto in chi ne condivideva le aspirazioni di libertà, negli intenti se non anche nei metodi, tramandata alle nuove generazioni ribelli affinché ne facessero tesoro. Un lascito alquanto parziale, più simbolico che altro, considerato che anche la sua voluminosa opera scritta è rimasta sconosciuta (lasciata ingiallire nelle biblioteche perché sovente resa poco appetibile da un linguaggio arcaico, infiorettato, pieno di retorica).
Ma poi gli storici di professione hanno fatto scempio di quella eredità. L’imbarazzo che si può provare davanti a certe agiografie di movimento diventa insignificante di fronte al fastidio provocato dalle ricostruzioni dell’accademia. Le prime saranno pure cieche come atti d’amore, ma le seconde sono occhiute come verbali di polizia!
I primi ad essersi occupati di quelle lontane vicende sono stati alcuni storici più o meno simpatizzanti con le idee libertarie, i quali da un lato hanno permesso di scoprire un po’ di storia laddove prima c’era silenzio o leggenda, dall’altro ne hanno ridotto la portata a criteri più mediocri.
Paul Avrich ha affrontato il retroterra del caso Sacco-Vanzetti, Nunzio Pernicone ha ripercorso la vita di Carlo Tresca, ma entrambi non hanno potuto evitare di sbattere contro la figura di Galleani («mentore» dei primi, «rivale» del secondo), talmente rilevante in quei fatti lontani da non poter essere sottaciuta. Solo che, ciò che per Galleani e per i suoi compagni era ragione di vita, ciò che dava un significato alla loro esistenza, un’idea immensa per cui vivere e morire, per gli storici diventa un soggetto di ricerche bibliotecarie, un argomento da conferenza, una materia originale su cui scrivere un bel tomo. Non è una tensione liberatoria da incarnare, è un’occasione editoriale da sfruttare. Chi è abituato a scaldare una cattedra universitaria con l’unica preoccupazione di riscuotere il salario dello Stato, come può anche solo intuire cosa travagliava chi ha combattuto per tutta la vita contro lo Stato, venendo per questo perseguitato o ucciso? Come può comprenderne le necessità da adempiere, i problemi da risolvere, le difficoltà da sormontare, i tentativi da realizzare? Come può reggerne la forza prorompente?
Non può. Ecco perché tende a leggere l’avventurosa vita altrui (pensando per altro di ricavarla da documenti giudiziari presi per autentiche rivelazioni) con gli occhiali opachi della propria quieta sopravvivenza. Non capendo nulla della sostanza dell’anarchismo, gli storici storcono il naso davanti alla forma che talvolta esso può assumere nei suoi propugnatori in carne ed ossa. Di quei «cavalieri erranti dell’Idea» vedono solo la merda lasciata qua e là dal loro cavallo. Il risultato è straziante. L’inflessibilità di quegli anarchici è terrificante per chi non riesce a sottrarsi del tutto alla pratica della genuflessione. La loro passione per le proprie idee è abominevole per chi esprime indifferenti opinioni. Il loro ricorso alla violenza è esagerato per chi mira solo ad una buona pensione.
È stupefacente come questi storici che impallidiscono davanti alle polemiche di Galleani, in cui non vedono altro che becera intolleranza, non sappiano nemmeno che la battaglia delle idee ha preparato e accompagnato tutte le rivoluzioni della storia (scontri fra girondini, giacobini, cordiglieri e arrabbiati nella rivoluzione francese; fra socialisti repubblicani, comunisti blanquisti e federalisti proudhoniani nella Comune di Parigi; fra bolscevichi, menscevichi, socialisti rivoluzionari e anarchici nella rivoluzione russa; fra anarchici, stalinisti e repubblicani nella rivoluzione spagnola).
Il vecchio mondo viene assaltato da tutte le parti, nuove idee di felicità si fanno largo urtandosi a vicenda, scontrandosi talvolta in maniera aspra, sprigionando scintille: per affinarsi, per crescere, per emergere. È sempre stato così, non c’è nulla di mostruoso in tutto ciò.
Così, per quanto desideroso di riconoscere la dimensione anarchica della storia di Sacco e Vanzetti, Avrich finisce col seppellirla sotto una montagna di inutili dettagli — dall’enumerazione dei mestieri fatti per sopravvivere a quella dei traslochi domestici, passando per le faccende di cuore — che alla fine a forza di venire accumulati rischiano di occupare tutto l’orizzonte (quanto all’anarchismo, si limita a darne una puerile catalogazione scolastica).
Da parte sua Pernicone, incantato dal funambolico «eclettismo» di un Tresca, non si capacita di come si possa mettere in pratica ciò che si teorizza e questa sua incapacità di cogliere il significato di certe decisioni assume talvolta tratti umoristici. Non solo deride l’«autosacrificio» di Galleani, il quale come molti altri anarchici preferì il confino ad una libertà ottenuta attraverso l’elezione in Parlamento, ma giudica pretestuosa la scelta dei «galleanisti» (termine spregiativo usato abitualmente da chi li avversava) di allontanare l’avvocato Moore… solo perché voleva scagionare Sacco e Vanzetti consegnando al boia qualcun altro.
Ma se quegli anarchici italiani — appena ne è stata scoperta l’assenza di innocenza — sono stati bollati come settari, intolleranti e fanatici dagli storici meglio predisposti nei confronti delle loro idee di libertà, non è difficile immaginare come siano stati descritti dagli studiosi più reazionari, quelli che si sono interessati a loro sull’onda lunga dell’11 settembre 2001. Poiché il panico seminato anche fra i potenti ed i loro servitori in quella giornata aveva come unico precedente quello provocato dall’attentato di Wall Street, avvenuto il 16 settembre 1920 per mano anarchica, il terrorismo jihadista ha involontariamente riportato alla memoria pubblica chi aveva osato sfidare il potere statunitense oltre ottant’anni prima, fino a spingere alcuni giornalisti ed «esperti» ad affermare che a Boston nel 1919 aveva vissuto il vercellese Osama Bin Laden dell’anarchia («è profondo!», commentò Galleani quando udì un pubblico ministero sostenere che si fanno giornali sovversivi solo perché non si ha voglia di lavorare).
Quando leggiamo considerazioni del genere ci rimane in bocca l’amara impressione che ciò che più vorremmo conoscere di quei fatti lontani venga appena sfiorato, nel migliore dei casi tralasciato perché ritenuto poco significativo, nel peggiore mistificato perché ritenuto troppo significativo. Ma come ribaltare questa storia di Stato, l’unica che l’accademia sappia raccontare, cambiandone anche il sapore?
Ecco come è nata l’idea di questo libro. Per realizzarlo, siamo partiti da un presupposto. Gli storici statunitensi si sono basati soprattutto sui rapporti di polizia, consultando e riportando solo in minima parte gli articoli apparsi all’epoca su Cronaca Sovversiva — probabilmente la differenza di lingua ha contribuito non poco, costituendo in molti casi un ostacolo insormontabile —, giornale che diede spesso spazio a quegli eventi, esprimendo le ragioni che muovevano quegli anarchici italiani. Per noi invece è più facile intraprendere il percorso opposto, correggendo i documenti ufficiali degli uni con le parole dei diretti interessati.
Saccheggiando le ricerche di Avrich e di altri storici che lo hanno seguito, abbiamo quindi scritto una controstoria di quella offensiva armata cercando di guardarla con gli occhi degli anarchici che la realizzarono. Nel limite delle nostre capacità e possibilità, abbiamo svolto ulteriori ricerche. Non sono state vane, giacché erano stati trascurati alcuni fatti e particolari a nostro avviso di enorme importanza che qui riportiamo per la prima volta.
Quella che state per leggere è quindi una storia partigiana, suddivisa cronologicamente in capitoli, tutti accompagnati da una più o meno corposa iconografia.
Il primo, che in un certo senso introduce e preannuncia gli avvenimenti successivi, è dedicato alla pubblicazione di La Salute è in voi!, manuale pratico pubblicato da Galleani nel 1906 il cui peso si farà sentire più volte in seguito, mentre l’ultimo capitolo che precede l’epilogo affronta quanto (non) successe prima e dopo l’esecuzione di Sacco e Vanzetti. In mezzo, numerosi episodi della «buona guerra» contro ogni autorità che gli anarchici italiani condussero negli Stati Uniti fra il 1914 e il 1920. Una guerra a tratti feroce, piena di tragedie, giacché questi immigrati stranieri senza Dio né patria non leccarono la mano di chi li aveva accolti nel Nuovo Mondo con la frusta dello sfruttamento ed il manganello della repressione, pretendendo che ammainassero la loro nera bandiera — la morsero a sangue. E ne affrontarono tutte le conseguenze.
Non erano né eroi sovrumani né pazzi criminali. Erano uomini e donne in carne ed ossa, muscoli e nervi. Ma nella loro testa, ma nel loro cuore, bruciava un fuoco inestinguibile, ciò che essi chiamavano Idea. Al di là dei fatti riportati, al di là dei nomi ricordati, la vera protagonista delle pagine che seguono è proprio questa idea che caratterizza l’anarchismo autonomo. La rivolta contro la società non è solo il risultato di rapporti sociali oggettivi ma è al tempo stesso l’espressione diretta della propria individualità, che non accetta alcuna museruola collettiva.
L’anarchia potrà anche essere per taluni una promessa da vendere di un domani lontano, ma l’anarchismo è un principio (nel suo duplice significato di valore ed inizio) da vivere, da mettere in atto, adesso. Pensiero e azione. Perché, se si trattasse soltanto di risolvere l’urgenza della necessità economica, di asciugare il sudore della fronte o di arrecare sollievo ad uno stomaco troppo spesso vuoto, il riformismo sarebbe una soluzione più che sufficiente, in grado di trovare una risposta tattica ad ogni singolo problema. Ma una trasformazione radicale della condizione umana necessita di ben altro: di una rivoluzione sociale animata da un’aspirazione eterna che la disperazione quotidiana non riesce ad annientare. Una visione, un desiderio, l’Idea, ciò che incita giorno e notte a spezzare le inibizioni materiali e ideologiche che insegnano all’essere umano a sottomettersi ai potenti di questo mondo.
Esiste forse un esempio più cattivo e scandaloso di quello offerto un secolo fa da questi anarchici? Contro ogni realismo politico, attaccarono qualsiasi autorità nonostante il loro numero relativamente esiguo. Volendo crescere, cercarono incessantemente complici fra i poveri e gli sfruttati, senza mai chiudersi nel rancoroso disprezzo per l’altro, ma non subordinarono mai la loro lotta a criteri quantitativi. Invincibile non è un grande esercito organizzato, invincibile è un ordine sparso di forte volontà e di grande determinazione.
Contro ogni impotenza disperata, non si rassegnarono alla loro carenza di mezzi ma si sforzarono di superarla. Se la loro scatola degli attrezzi era quasi vuota, il loro arsenale mentale era inesauribile. Preso atto della drammatica situazione da affrontare, non ne rimasero sopraffatti. Prima la studiarono e poi fecero ciò che nessuno prima di loro aveva mai pensato di fare.
Contro ogni idealismo illusorio, non esitarono a versare sangue. La parola è menzogna, l’etica è viltà, quando non spingono e accompagnano all’azione temeraria, sostituendola con la candida virtù. La guerra sociale non si accontenta di roboanti dichiarazioni, necessita anche di fatti materiali che mirino a colpire il nemico, anche in maniera cruenta.
Contro ogni compromesso strategico, non vendettero i loro sogni. Il loro amore per le proprie idee, il loro orgoglio, la loro dignità, non conobbero transazioni o transizioni sul mercato del consenso. Non dovendo firmare patti con nessuno, le loro mani rimasero libere di impugnare armi. E alcuni di loro, dopo il 1927, rimpiansero amaramente di aver tralasciato l’idea per stringere un’alleanza.
Contro ogni luogo comune, non contrapposero mai la libertà dell’individuo alle necessità dell’associazione, la sete di sapere alla voglia di fare, la gioia di vivere al rischio della morte, la parola da sostenere all’azione da realizzare.
Diedero idee al corpo e corpo alle idee. È qui, dove l’amore per la libertà e l’odio per il potere si fondono in una vera e propria etica di vita — mai in un’ideologia politica — che avviene quella corrispondenza di sogno e realtà, di amore e rivolta, di baci e dinamite, di rose e barricate, così descritta da Vanzetti in una delle sue lettere: «Oh amica, l’anarchismo per me è bello quanto una donna, forse persino di più perché comprende tutto il resto, e me e lei. Calmo, sereno, onesto, naturale, virile, fangoso e celeste allo stesso tempo, austero, eroico, temerario, fatale, generoso ed implacabile — è tutto questo e molto altro ancora».
Sì, molto altro ancora. Andiamo a incominciare.
Parole Chiare
pp 304 – 15 euro
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